Sincronía Verano 2007


Segno, significato e comunicazione in Husserl: un analisi filosofico-semiotica della fenomenologia.

Paolo Teobaldelli


 

Abstract.

Compito di questo lavoro e' quello di attuare una lettura della fenomenologia husserliana da una prospettiva filosofico-semiotica, quella che ho sviluppato in Teobaldelli: 2003, la quale prospettiva intende essere un primo tentativo di fondare una teoria filosofica che sia in grado di superare l'impasse della filosofia della coscienza basando al tempo stesso la svolta intersoggettiva su un quadro teorico in grado di evitare i problemi teorici dei concetti elaborati nel corso dell'evoluzione dela filosofia classica. Tale prospettiva cerca di comprendere le tematiche fondamentali del pensiero filosofico attraverso una chiave semiotica basata sulla comunicazione come processo fondante della conoscenza, gia' come in un certo modo teorizzava Peirce. A tal fine la rilettura in chiave semiotico comunicazionale del pensiero husserliana e della tensione che in esso si trova riguardo alle tematiche del linguaggio, della significazione e della comunicazione.

 

 

La fenomenologia husserliana non tematizza il linguaggio come problema nell'indagine relativa al fondamento primo della conoscenza, cioe' il rapporto soggetto/oggetto.

La convinzione di Cassirer che il linguaggio sia al tempo stesso il luogo ed il medium della conoscenza, e che dunque il confronto con esso sia imprescindibile in un analisi sul conoscere, cioè che una tale analisi implichi un’analisi di tale luogo e mezzo, non appare altrettanto valida in Husserl, la cui metodologia cartesiana-kantiana lo riconduce ad un pensare filosofico pre-linguistico, nel senso che il soggetto puro è il centro dell’attenzione filosofica, laddove questa purezza significa anche una pre-linguisticità, una sfera trascendentale originaria dove nessuna contaminazione, neppure quella linguistica, è possibile alla ricerca del problema fondamentale dell’essere:

"Pertanto con la riduzione trascendentale si compie una sorta di scissione-dell’-io: l’osservatore trascendentale si pone al di sopra di sé stesso, rivolge a sé lo sguardo e si riguarda come l’io che era prima dedito al mondo. Trova quindi in sé come cogitatum sé come uomo e trova nelle relative cogitationes la vita e l’esistenza trascendentali che costituiscono l’intero essere-mondano. Se l’uomo naturale (compreso l’io che in fondo è trascendentale ma non ne sa nulla) ha un mondo e una scienza mondana che esistono in ingenua assolutezza, lo spettatore trascendentale divenuto conscio di sé come io trascendentale ha il mondo soltanto come fenomeno, cioè come cogitatum di una cogitatio, come l’apparente di una apparizione, come mero correlato (1989, cit. p.14)."

Tuttavia troviamo Husserl alle prese con le problematiche semiotiche della significazione e comunicazione nelle Logische Untersuchungen, dove egli riconosce l’importanza della discussione linguistica per una costruzione di una teoria logica come tecnologia (Kunstlehre) in quanto altrimenti "non sarebbe possibile condurre un’indagine sul significato delle proposizioni, un oggetto che si trova <sulla soglia> della nostra scienza (1988, cit. p.267)". La sua analisi dell’espressione e del significato tende infatti a rendere chiari ed evidenti dal punto di vista fenomenologico i concetti e le leggi che costituiscono le idee logiche, intesi nella loro essenzialità, e ciò significa nel linguaggio husserliano, spiegare la loro oggettività significativa e il loro farsi soggettivo nella praxis della conoscenza. Dunque l’intento husserliano non è quello di costruire una teoria astratta dei significati, una semantica, ma, potremmo dire, di trovare un quadro teorico nel quale la semantica e la pragmatica siano spiegate ed unite da categorie generali:

"Il fatto che ogni attività del pensiero e del conoscere sia diretta su oggetti oppure su stati di cose, che essa può cogliere in modo tale che il loro <essere in sé> si manifesti come unità identificabile nella molteplicità degli atti reali o possibili del pensiero, ovvero degli atti significanti; inoltre il fatto che ad ogni pensiero sia propria una forma, sottoposta a leggi ideali che definiscono in generale l’obiettività o l’idealità della conoscenza - tutto ciò solleva continuamente questi interrogativi: in che modo dobbiamo intendere il fatto che l’ <in sé> dell’obiettività giunge a <rappresentazione>, anzi ad <apprensione> nella conoscenza, ridiventando così soggettivo; che cosa significa che l’oggetto sia <dato in sé> e nella conoscenza; come può l’idealità del generale, in quanto concetto o legge, presentarsi nel flusso dei vissuti psichici reali e diventare possesso conoscitivo del soggetto pensante (Ibidem, cit. pp.273/274)"

Riconosciamo dunque l’intento fenomenologico prioritario di Husserl, quello di spiegare la possibilità stessa del pensiero, nella sua essenza e nel suo dispiegarsi.

Egli rileva innanzitutto la necessità di chiarire il rapporto fra l’espressione ed il significato data "l’esistenza di un certo parallelismo fra pensiero e parola" che potrebbe far pensare semplicisticamente ad una risoluzione del problema di un’ analisi dei significati in una mera analisi grammaticale, ovvero il porre questo parallelismo come dato a priori, perfetto e dunque a-problematico. Secondo Husserl invece la sua problematicità è fuor di dubbio, dato che vi sono differenze di significato rilevanti per date espressioni, differenze che hanno talora il carattere dell’essenzialità, talora quello dell’accidentalità, a seconda degli scopi pragmatici, e che inoltre non determinano la differenziazione fra le espressioni. E’ chiaro dunque che tale problematicità non può essere risolta dall’analisi grammaticale (cioè semantico-letterale nell’accezione husserliana) ma da un’analisi che scopra il rapporto fra espressione e significato in modo da poter porre le fondamenta di una teoria della conoscenza che sia in grado di "chiarire l’idea della conoscenza nei suoi elementi costitutivi o nelle sue leggi":

"La <teoria> a cui con tale indagine si vuol giungere non è altro che il prendere coscienza, il rendere comprensibile ed evidente che cosa siano in generale, cioè nella loro essenza generica pura, il pensiero e la conoscenza; quali siano le modalità e le forme alle quali sono legati; quali strutture immanenti siano proprie al loro riferirsi all’oggetto; (Ibidem, cit. p. 284)."

Ma vediamo in quali termini Husserl pone il rapporto espressione/significato: egli critica innanzitutto l’uso sinonimico dei termini espressione e segno, in quanto, afferma, si può notare che in molti casi i segni non esprimono nulla se non la mera indicazione. Qui troviamo subito una prima distinzione essenziale che si ricollega ai problemi da noi affrontati nei precedenti capitoli: il segno infatti è per Husserl aliquid che stat pro aliquo, ma questa relazione non è per lui significare, bensì indicare, il segno è per lui segnale, sebbene, riconosce, alcuni segni possono assolvere una funzione significante:

"In senso proprio, qualcosa deve essere definito segnale, se e quando serve effettivamente ad un essere pensante come indicazione di una cosa qualsiasi (Ibidem, cit. p. 292)."

L’espressione (intesa sempre come Sprache=lingua verbale) invece è significativa, ed essa viene distinta dai segni, sebbene afferma Husserl, l’espressione si trovi sempre intrecciata, nel contesto comunicativo, all’indicazione. Ma proprio al fine di differenziare l’una dall’altra Husserl esclude dalla sfera significativa dell’espressione ogni atto involontario, non-intenzionale:

"Escludiamo invece il gioco mimico e i gesti con i quali istintivamente o comunque senza intenzione comunicativa, accompagniamo il nostro discorrere, o nei quali, anche senza il concorso delle parole, lo stato d’animo di una persona perviene ad una <espressione> comprensibile per coloro che le stanno intorno (Ibidem, cit.p.298)"

Ritroviamo dunque il problema dell’intenzionalità della comunicazione/significazione (discusso ampiamente in Teobaldelli: 1994, 1996, 1999). Husserl liquida come non-significativo tutto ciò che non è intenzionalmente prodotto per comunicare, ma riconosce che anche l’espressione può avere una funzione di indicazione, funzione che egli chiama appunto informativa.

Husserl sostiene che riguardo all’espressione bisogna considerare il suo aspetto fisico, il complesso fonetico, il segno scritto sulla carta ecc. ed inoltre "il complesso di vissuti psichici che collegati associativamente all’espressione, la rendono espressione di qualche cosa".

Una tale asserzione potrebbe far pensare ad una contraddizione nell’argomentazione husserliana, ovvero all’ espressione di qualche cosa come l’ aliquid stat pro aliquo. Ma Husserl prosegue:

"Per lo più questi vissuti psichici vengono caratterizzati come senso o significato dell’espressione, intendendo appunto cogliere con questa caratterizzazione ciò che questi termini vogliono dire nel linguaggio normale. Vedremo tuttavia che questa concezione è scorretta e che, specialmente ai fini della logica, non basta distinguere tra segni fisici e vissuti che conferiscono il senso (Ibidem, cit. p. 299)"

Egli differenzia infatti la funzione comunicativa intesa come l’intenzione del soggetto di pronunciarsi su qualche cosa dalla funzione informativa, ovvero dalla percezione dell’espressione fisica che rende noto il vissuto psichico. Dunque nel contesto concreto il ricevente acquisisce la conoscenza di ciò che l’espressione significa in un modo che è quello dell’indicazione. La differenza viene posta da Husserl sulla base della sua attenzione al vissuto coscienziale. Difatti colui che ascolta viene informato dall’espressione resa indicazione dei vissuti psichici del parlante, ma egli non li vive, e dunque "nel primo caso abbiamo un essere <vissuto>, nel secondo un essere meramente supposto". Tale impostazione potrebbe sembrare una riedizione della dicotomia classica ideale/materiale, per cui il significato apparirebbe dunque come il contenuto dell’espressione, una misura logico-semantica, ma l’argomentazione husserliana riguardo all’espressione è più sottile, non sembra riducibile in toto ad una tale interpretazione. Husserl infatti afferma, che da un punto di vista descrittivo, l’espressione è da un lato fenomeno fisico, dall’altro essa è al tempo stesso intenzione significante, cioè un atto conferitore di senso, e atto riempiente, cioè intuizione presente (o presentificata) dell’oggetto:

"Perciò non dovrebbe essere lecito dire (per quanto ciò accada molto spesso) che l’espressione esprime il suo significato (l’intenzione). Più opportunamente si dirà che l’atto riempiente si presenta come l’atto espresso dall’espressione completa (Ibidem, cit. p. 305)"

L’intento husserliano sembra quello di evitare la concezione nominalistica del significato, per cui il significato è l’espresso dell’espressione:

"Se riflettiamo sul rapporto intercorrente tra espressione e significato e se a tal fine scomponiamo il vissuto, pur complesso ma anche internamente unitario, dell’espressione riempita di senso, nelle sue due componenti di <parola> e <senso>, la parola stessa ci appare allora in sé indifferente, il senso invece come ciò che si <ha di mira> con la parola, ciò che si intende per mezzo di questo segno; sembra così che l’espressione distolga da sé l’interesse per orientarlo sul significato, per rinviare ad esso. Ma questo rinvio non è un’indicazione nell’accezione da noi discussa. L’esistenza del segno non motiva l’esistenza, o più esattamente, la nostra convinzione dell’esistenza del significato (Ibidem, cit. p. 302; sottolineatura mia)"

L’argomentazione è molto chiara, e non è tesa ad evitare la definizione di segno, ma ad evitare piuttosto la riduzione del significare dell’espressione all’indicazione, allo aliquid stat pro aliquo. Ugualmente Husserl rigetta la concezione del significato come riferimento, dato che espressioni diverse fra loro possono avere lo stesso oggetto come riferimento (ad esempio il vincitore di Jena, il vinto di Waterloo ecc.), oppure la stessa espressione significati diversi (ad esempio questo animale è un asino, Mario è un asino). Husserl, a proposito di espressioni in assenza di intuizioni, ovvero laddove non v’è anche l’oggetto fisico (il referente), nota lucidamente:

" [...] possiamo giudicare, inferire, riflettere e confutare, nel senso più attuale, sulla base di rappresentazioni <puramente simboliche>. Si descrive in modo assai inadeguato questa situazione, quando si parla a questo proposito di una funzione supplente dei segni, come se i segni stessi fossero i succedanei di qualcosa (Ibidem, cit. p.335)"

Husserl non va oltre, ma la sua argomentazione ci suggerisce già qualcosa: le due concezioni, quella cioè del significato come riferimento e quella del segno come sostituto sono in effetti due varianti della medesima concezione.

La proposta husserliana è invece quella di concepire il significato come una unità ideale:

"[...] è certo che ogni enunciato, sia che si trovi nella funzione conoscitiva o no (cioè che riempia o possa eventualmente riempire la sua intenzione nelle intuizioni corrispondenti e negli atti categoriali che danno ad essa una forma, o no) , ha la propria intenzione, ed inoltre che in questa intenzione si costituisce il significato come suo carattere specifico ed unitario (Ibidem, cit. p. 311)"

Correlare la nozione di significato all’intenzione espressa nell’atto non significa però relegarla nella mera soggettività, all’uso. Husserl ritiene infatti che la significazione posta in essere attraverso l’intenzione significante soggettiva corrisponda a delle essenze di significazione ideali o specie, delle unità appunto che conferiscono significati essenzialmente oggettivi, al di là del carattere soggettivo dei vissuti che con tali signifcati sono comunque intimamente connessi:

"Le singolarità molteplici che formano il significare idealmente unico sono naturalmente i momenti d’atto corrispondenti del significare, le intenzioni significanti. Il significato si trova, rispetto agli atti singoli del significare [...] in una relazione simile a quella che il <rosso> in specie ha verso queste strisce di carta, che <hanno> tutte lo stesso rosso. (Ibidem, cit.pp. 368-369)."

A questo punto occorre però analizzare due questioni riguardo a tale concezione, entrambe di estrema importanza ai fini della nostra trattazione. Esse emergono con rilievo dalla continuazione dell’argomentazione appena citata:

"Ogni striscia ha, oltre ad altri momenti costitutivi (estensione, forma, ecc.) il suo rosso individuale, cioè il suo caso singolo di questa specie di colore, mentre essa stessa non esiste realmente in questa striscia, né altrove; e meno che mai nel <nostro pensiero> in quanto esso appartiene al regno dell’essere reale, alla sfera della temporalità (Ibidem; sottolineatura mia)."

E dunque:

Come si specifica questa correlazione essenza ideale(specie)/intenzione significante? E’ forse una relazione type/token quella a cui pensa Husserl? Il termine caso singolo evoca infatti fortemente quello di occorrenza.

Che cosa si intende con specie? Se esse non appartengono alla sfera dell’essere, del reale, dunque a quale sfera o dimensione particolare appartengono? Ma soprattutto: come si può dire cosa sono?

Per chiarire tale punto dobbiamo allargare il discorso husserliano specifico sull’espressione proprio delle Logische Untersuchungen a quello globale, fenomenologico, nel quale si inserisce tutta l’opera husserliana: il problema cioè di riuscire a fondare fenomenologicamente la possibilità della conoscenza, di dare uno status trascendentale, fondativo appunto, della sfera dell’idealità che costituisce la conoscenza. E’ questo statuto trascendentale che rappresenta la dimensione essenziale, eidetica di ogni possibile senso, e dunque il regno della significazione.

In questo senso l’intenzionalità della coscienza pura appare una specie fenomenologica del nous classico, ed è Husserl stesso a tracciarne le caratteristiche:

"La vita di coscienza [...] non è una mera connessione di dati, né un cumulo di atomi psichici, né una totalità di elementi unificati da qualità gestaltiche. L’analisi intenzionale è scoperta delle attualità e delle potenzialità in cui si costituiscono gli oggetti come unità di senso, e ogni analisi del senso si compie nel passaggio dalle esperienze reali agli orizzonti in esse delineati (1989, cit. p. 17)."

La coscienza pura è l’unità dinamica della sintesi di esperienze intenzionali, il flusso attivo e vitale della soggettività:

"[...] la soggettività trascendentale non è un caos di esperienze intenzionali, ma un’unità di sintesi, d’una sintesi a più piani, nella quale sono costituiti sempre nuovi tipi di oggetti e oggetti singoli: Ogni oggetto però designa una struttura di regole per la soggettività trascendentale.

Ponendoci la questione del sistema trascendentale dell’intenzionalità, mediante il quale c’è continuamente per l’ego una natura, un mondo - prima di tutto nell’esperienza come direttamente visibile, toccabile ecc. e poi mediante qualche altra intenzionalità diretta al mondo - ponendoci dunque tale questione noi ci troviamo già propriamente nella fenomenologia della ragione. Ragione e non-ragione, intese nel senso più ampio, non indicano facoltà e fatti casualmente esistenti, ma appartengono alla forma strutturale della soggettività trascendentale in generale (Ibidem, cit. p.19)."

Dunque la fenomenologia è la scienza per eccellenza, quella che fonda ogni altra possibile scienza, in quanto il suo oggetto non è il mondo, gli oggetti e le possibili leggi e/o connessioni fra essi, bensì tale oggetto è la possibilità stessa da parte del soggetto uomo di costruzione di tale conoscenza del dato, di questa tensione ideale che ha come oggetti le esperienze della mondanità. Il fondamento ultimo di ogni possibile conoscenza è appunto questo a-priori costituito dall’intenzionalità infinita della coscienza che fonda anche ogni possibile esistente. Il tentativo husserliano, sembra a me evidente, è quello di dare uno status scientifico alla sfera del pensiero, questa Sache come la chiama Husserl, è ciò con cui la fenomenologia si confronta, nell’estremo tentativo di trovare ad essa una fondazione, una risoluzione dei problemi costitutivi di ragione ed essere. Tale fondazione è trovata secondo Husserl, attraverso la messa fra parentesi della mondanità, la riduzione fenomenologica operata dall’ego. nella certezza apodittica dell’esistenza di fatto del proprio sé. Questo legame fra l’essere-lì-di-fatto e il pensiero, questa complessa ghiandola pineale fenomenologica, è per Husserl la risoluzione di ogni questione filosofica sull’essere, perchè in tale legame si fonda anche l’esistenza oggettiva del pensiero che la fenomenologia individua poi come movimento incessante dell’intenzionalità, e che costituisce l’ego "come una connessione infinita di produzioni sinteticamente connesse, che sono anzi costitutive". Dunque lo stesso problema delle costruzioni di senso e di essere dipendono da questa intenzionalità costitutiva del soggetto-esistente di fatto. In questo senso anche la teoria del realismo ingenuo è messa definitivamente da parte; Husserl procede, nei Pariser Vorträge, ad un sintetico ma puntuale confronto della sua fenomenologia con la gnoseologia il cui problema, egli scrive, è quello della trascendenza. Se infatti tale dottrina stabilisce che l’atteggiamento naturale è sufficiente, per cui ogni uomo è nel mondo e conosce naturalmente tale mondo attraverso la sua coscienza, essa non riesce però a fondarsi come psicologia della conoscenza, in quanto ciò che è oggettivo nell’immanenza della coscienza non può "pretendere di esser più che un carattere di coscienza":

" Evidentemente reale, razionalmente possibile, probabile ecc., tutti questi sono caratteri di qualche ogetto intenzionali che compaiono nel mio dominio di coscienza. Ogni dimostrazione, giustificazione di verità ed esistenza scorre in tutto e per tutto in me, e la loro fine è un carattere del cogitatum del mio cogito (Ibidem, cit. p.27)."

La critica di Husserl si rivolge quindi alla pretesa di trovare una fondazione oggettiva nel mutevole carattere soggettivo dei contenuti mondani della conoscenza. A tale dottrina egli contrappone l’idealismo trascendentale, ovvero un idealismo che non vuole essere psicologico, né percettivo-deduttivo, né di tipo kantiano dove esistono ancora cose in sé:

"Quest’idealismo non è formato da un gioco di argomentazioni che debba vincerla nella lotta dialettica contro i realismi. Esso è l’esplicazione di senso realmente condotta su ogni tipo pensabile di essere per me, come ego, e specialmente sulla trascendenza (che mi si presenta realmente data sperimentalmente) della natura, della cultura e del mondo in generale. Ma ciò val quanto dire: rivelazione sistematica dell’intenzionalità costitutiva stessa (Ibidem, cit. p. 109)."

In un certo senso troviamo qui delle analogie con Cassirer, in quanto entrambi cercano una soluzione non alla fondazione oggettiva di concetti, bensì a quella della concettualità stessa, della facoltà di poter pensare e costruire una sfera ideale di oggetti non oggettivi, ma ideali appunto. E’ a parer mio, il medesimo problema che è alla base della questione stessa della fondazione di una semiotica come scienza della cultura e/o conoscenza. Una tale scienza non può fondarsi solamente attraverso l’analisi di tali oggetti, bensì anche e soprattutto su di un impianto teorico che indaghi sistematicamente la facoltà stessa di produrre e usare tali oggetti:

"Una fenomenologia condotta consequenzialmente costruisce quindi a-priori, ma pure in necessità e universalità d’essenza rigorosamente intuitiva le forme dei mondi immaginabili e queste ancora nell’ambito di ogni forma d’essere immaginabile in generale e del suo sistema di gradi (Ibidem, cit. p. 32)."

E’ certo che l’impostazione di Husserl lascia aperti diversi nodi teoretici, soprattutto a mio avviso, la validità complessiva dell’intero impianto fenomenologico husserliano è sospesa dalla problematica ineludibile del concetto di realtà, ovvero: questa sfera ideale che è l’intenzionalità trascendentale costitutiva di ogni possibile discorso, in che maniera si pone rispetto ad un possibile concetto di reale? Oppure: in che rapporto stanno mondo oggettivo e sfera trascendentale? La riduzione eidetica appare infatti come l’instaurazione di un limbo extraterreno, una sorta di nicchia originaria da cui tutto il resto (coscienza empirica, vissuti e mondo oggettivo, linguaggio) fuoriesce secondo le modalità costitutive dell’intenzionalità. Ogni nodo teoretico sull’essere è anch’esso relegato in questa sfera, in questa dimensione fondativa che non si lascia definire.

Uno dei nodi problematici al riguardo è quello del rapporto fra la coscienza trascendentale e la coscienza di cui ad esempio si occupa la psicologia. In Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie (1950) troviamo Husserl alle prese con il problema di distinguere i fenomeni della fenomenologia da quelli appunto della psicologia, e la sua argomentazione si svolge proprio intorno ai termini di realtà/non-realtà. Egli inizia con il dire che la fenomenologia pura è una scienza fondativa della filosofia, che si occupa, al pari di altre scienze, di fenomeni, in tutti i sensi in cui tale parola ‘fenomeno’ viene di solito assunta: ma esso viene trattato dalla fenomenologia in un quadro teorico totalmente diverso attraverso il quale ogni possibile senso di ‘fenomeno’ utilizzato nelle scienze tradizionali, ne viene modificato in modo determinante. Il primo compito che si prefigge egli è dunque quello di motivare ampiamente il quadro teorico della fenomenologia onde far comprendere la modificazione che viene ad assumere nella sfera fenomenologica il termine ‘fenomeno’. La prima cosa che gli preme puntualizzare è l’essere della fenomenologia non un sottolivello della psicologia empirica, né comunque psicologia, essa si occupa piuttosto di principi teoretici basici quali fondamenti essenziali, e come Scienza delle Idee essa è "so wenig selbst Psychologie, wie die Geometrie Naturwissenschaft ist ", nonostante essa abbia a che fare con l’io e la coscienza, ma in un modo nuovo che è appunto quello fenomenologico:

"Wir werden vom natürlichen Standpunkt ausgehen, von der Welt, wie sie uns gegenübersteht, von dem Ich-Bewußtein, wie es sich in der psychologischen Erfahrung darbietet, und die ihm wesentlichen Voraussetzungen bloßlegen (ibidem, cit. p. 5)".

Nel cercare di differenziare la fenomenologia dalla psicologia in un modo che non dia adito a equivoci, Husserl afferma che la psicologia quale scienza dell’esperienza (Erfahrungswissenschaft) può però essere intesa sia come una scienza di dati di fatto, sia come una scienza di realtà, cioè i fenomeni psicologici intesi come presenze reali ( reale Vorkommnisse). La fenomenologia invece si fonda non come scienza di dati di fatto bensì di essenze quale scienza eidetica, i cui fenomeni sono caratterizzati come irreali (trascendentali), come ciò che rimane dopo la riduzione eidetica che "pulisce", "depura" ciò che viene ad essi dal reale.

"Demgegenüber wird die reine oder traszendentale Phänomenologie nicht als Tatsachenwissenschaft, sondern als Wesenswissenschaft (als ‘eidetische’ Wissenschaft) begründet werden (Ibidem, cit.p.7)"

Husserl si preoccupa poi di spiegare meglio questa differenziazione reale/irreale, che, afferma egli, nella sua differenziazione fra scienza empirica e scienza a-prioristica pone in causa due coppie oppositive, quella di reale/non-reale e quella di dato-di-fatto/essenza, che sostituiscono quella di reale/ideale. Il tentativo è infatti quello di risolvere questa opposizione (che riflette l’opposizione stessa fra scienze empiriche e scienze delle spirito) appunto (ri-)fondando una scienza che si occupa di riflettere sul fondamento ultimo di ogni possibile datità, cioè la coscienza trascendentale che con la sua intenzionalità infinita riempe il mondo di senso. La realtà oggettiva di tale coscienza è trovata poi (e fondata) nel suo essere radicata nel Leib, nel corpo vivente, nell’organismo fisico, che è fisico-oggettuale ma è anche intenzionale trascendenza d’essere, e dunque potremmo dire, non reificabile.

Eppure nonostante questa precisazione l’aporia concettuale dell’irrealtà della coscienza trascendentale permane: se infatti riconosciamo essere la coscienza trascendentale l’essenza costitutiva dell’essere, che in quanto essente in un Leib è, perchè darle uno status di irrealtà? Se la riconosciamo come costitutiva dell’essere infatti anche essa dovrebbe rientrare nel reale. Possiamo provare a sciogliere il nodo tentando di interpretare il senso implicito della concettualizzazione husserliana, e cioè interpretando qui reale come empirico, come ciò che è dato empiricamente, una concezione in qualche modo analoga a quella espressa dal concetto di doxa, e trascendentale come ciò che invece costituisce e ordina la datità e dunque ha un carattere che non è da essa determinato, a-prioristico, universale ed immutabile, pensiero puro.

In questa interpretazione la fenomenologia husserliana rivelerebbe di certo un carattere metafisico e razionalistico (sebbene di una ragione non-logico-concettuale) e costituirebbe comunque una dicotomia trascendentale/reale di difficile risoluzione al pari di quella reale/ideale che egli tenta di superare.

Eppure si ha in qualche luogo l’impressione che Husserl pensasse a qualcosa di diverso. Ad esempio quando cerca di chiarire il metodo dell’analisi trascendentale graduale:

"Partendo dall’esempio della percezione di questo tavolo, variamo ora il tavolo come oggetto di percezione, in modo completamente libero, in modo quindi da mantenere la percezione solo in quanto percezione-di-qualcosa, non importa quale, quasi cominciando dal fatto che noi a nostro piacimento ci fingiamo il colore, la forma ecc. del tavolo, mantenendo solo come identico il carattere dell’apparire conforme a percezione. In altre parole, noi cambiamo il fatto di questa percezione, astenendoci da ogni affermazione circa il suo valor d’essere, in una possibilità pura fra tante altre che, pur essendo delle possibilità pure qualunque, restano sempre possibilità di percezione. Noi trasferiamo in pari modo la percezione effettiva nel regno delle irrealtà effettive, del come-se, che ci procura le possibilità pure, pure da tutto ciò che è connesso con il fatto o con ogni fatto in generale. In quest’ultimo riguardo noi non teniamo nemmeno queste possibilità legate all’ego, posto anche come esistente di fatto, ma le poniamo solo come enti immaginabili dalla fantasiaa in piena libertà; in tal modo avremmo potuto fin dapprincipio, prendere come esempio iniziale il fantasticare entro una percezione, al di fuori di ogni rapporto con la nostra vita esistente di fatto. Il tipo di percezione universale così ottenuto si libra per così dire nell’aere della pura immaginabilità. E così questo tipo sottratto a ogni fatticità, è divenuto l’eidos percezione, il cui ambito ideale è costituito da tutte le percezioni idealiter possibili come pura immaginabilità (1989, cit. p. 96)".

L’impressione, motivata anche da molti altri luoghi husserliani, è che egli tenti di derivare dalla riduzione eidetica la fondazione stessa della sfera delle idee come mondo autonomo, avente uno status autosufficiente il quale permetterebbe una scienza prima dell’umano e del mondo in quanto appunto tale mondo è la sfera costitutiva di ogni possibile fattualità, ogni possibile senso :

"Jedes intentionale Erlebnis ist, dank seiner noetischen Momente, eben noetisches; das sagt, es ist sein Wesen, so etwas wie einen "Sinn" und ev. mehrfältigen Sinn in sich zu bergen, auf Grund dieser Sinngebungen und in eins damit weitere Leistungen zu vollziehen, die durch sie eben "sinvolle" werden (1950, cit, pp. 218-219; sottolineatura mia)."

La tensione husserliana, così come già in Cassirer, sembra volta a dare al problema conoscitivo una dimensione dinamica, attraverso il concetto di intenzionalità trascendentale, ma l’errore fondamentale in Husserl, da un punto di vista filosofico-semiotico almeno, sembra essere proprio la pretesa di fondare tale mondo svuotandolo di ogni contenuto di realtà, di ogni possibile determinazione ed interazione con il mondo dei fatti, fra cui il linguaggio stesso.

Ma al di là dei limiti metafisici dell’impianto possiamo riconoscere ad Husserl la validità dei motivi dell’indagine sul dinamismo del Dasein, contro ogni tentativo di riduzione dell’essere umano e della sua tensione conoscitiva.

Ci limiteremo per i nostri scopi ad assumere provvisoriamente qualche suggerimento traducendolo semioticamente: tutta la cultura e/o la conoscenza umana dipendono costitutivamente dalla (ossia si fondano nella) attività intenzionale fisico-semiotica dell’essere umano, attività la cui complessità non è certamente riducibile, né esplicabile in termini di segno-significato, bensì investe direttamente il rapporto globale uomo/mondo come attività estremamente dinamica.

La problematica filosofica del rapporto conoscitivo soggetto/oggetto sembra imporsi con forza al centro dell’attenzione chiamando in causa anche la semiotica.

 

Bibliografia

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1974 La fenomenologia trascendentale, La Nuova Italia, Imola.

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