RIFLESSIONI
FILOSOFICO-CRITICHE PER UNA NUOVA MODELLIZZAZIONE DELL'INTELLIGENZA UMANA:Rappresentazione e Informazione nella Psicologia e nella
Cibernetica: analisi critica di un equivoco basico nella modellizzazione dell'Intelligenza
umana dal
Paolo Osman Teobaldelli
Da una precedente analisi (Teobaldelli: 2003, Cap. III) e emersa con forza lesigenza di superare la dicotomia presente nella scienza tra realismo e idealismo.
Si
e visto come emerga nel dibattito filosofico lattenzione sul linguaggio e come
la mediazione linguistica divenga il concetto chiave della filosofia contemporanea. Credo
sia emerso a sufficienza il nodo problematico della relazione soggetto-oggetto sub specie linguistica, nodo che consiste nel
mantenimento sostanziale di una dicotomia, quella reale/ideale di stampo cartesiano. In
particolare mi sembra che nonostante sia dichiarato ormai sepolto lidealismo, sulla base della progressiva dignità
acquisita dalle scienze naturali empiriche, le Geisteswissenschaften
che da esso traevano la propria validità e giustificazione non riescano a rifondarsi
nella nuova accezione di scienze umane né come
scienze strettamente empiriche, cadendo di fatto nella fallacia gnoseologista,
né più su una base trascendentale mancandole la base idealistica che era il suo fondamento.
La dicotomia realismo/idealismo è dunque anche alla base dei nodi teorici della significazione. Come abbiamo potuto vedere (Ibidem) la stessa teoria della conoscenza si infrange sullo scoglio della significazione. Se si parte da una prospettiva gnoseologista in senso stretto, allora non si riesce a spiegare né tutta quella produzione simbolico-culturale che definiamo fiction, né si riesce a dare validità alle scienze umane, cioè ad una attività conoscitiva consistente nel tematizzare significazioni non riferentisi meramente al dato empirico. La concezione gnoseologista rende completamente statica la dimensione dellumano, oggettivandola, reificandola in categorie rigide di riferimento alla realtà dei suoi elementi.
Daltra parte, quando si cerca di allargare la base, allontanandosi dalla verifica controfattuale non si riesce più ad approdare alla terraferma, restando sospesi in una dimensione che non è né reale, né più ideale come in Husserl e in Apel, una dimensione che non si riesce ad afferrare (Vedi: Teobaldelli: 1998, 2007).
Forse il problema consiste proprio nel concetto stesso di realtà? Scriveva molto lucidamente Peirce in proposito:
Let us now approach the subject of logic, and consider a conception which particularly concerns it, that of reality. Taking clearness in the sense of familiarity, no idea could be clearer than this. Every child uses it with perfect confidence, never dreaming that he does not understand it. As for clearness in its second grade, however, it would probably puzzle most men, even among those of a reflective turn of mind, to give an abstract definition of the real. Yet such a definition may perhaps be reached by considering the points of difference between reality and its opposite, fiction. A figment is a product of somebody's imagination; it has such characters as his thought impresses upon it. That those characters are independent of how you or I think is an external reality. There are, however, phenomena within our own minds, dependent upon our thought, which are at the same time real in the sense that we really think them. But though their characters depend on how we think, they do not depend on what we think those characters to be. Thus, a dream has a real existence as a mental phenomenon, if somebody has really dreamt it; that he dreamt so and so, does not depend on what anybody thinks was dreamt, but is completely independent of all opinion on the subject. On the other hand, considering, not the fact of dreaming, but the thing dreamt, it retains its peculiarities by virtue of no other fact than that it was dreamt to possess them. Thus we may define the real as that whose characters are independent of what anybody may think them to be.
But, however satisfactory such a definition may be found, it would be a great mistake to suppose that it makes the idea of reality perfectly clear. (Peirce: 1878; sottolineatura mia)
Se noi considerassimo che sia il concetto di reale che quello di fiction dipendono da un processo significazionale che dá loro corpo, allora forse non potremmo pensare che è da questa constatazione che si dovrebbe cominciare? Cioè vale a dire: tutta la nostra attività conoscitiva, tutto ciò che noi giudichiamo, non è strettamente e rigorosamente dipendendente dalla mera percezione di un mondo fisico-naturale ma anche da tutta una serie di oggetti multidimensionali che sono gli oggetti fisico-semiotici i quali fanno parte della nostra realtà e hanno un ruolo determinante prima di tutto nella nostra formazione come esseri umani e poi nella nostra vita quotidiana, sia essa direttamente rivolta al mero mondo fisico-naturale che no. Tali oggetti infatti ci accompagnano nel nostro essere, sono co-presenti con esso. E questa la mia ipotesi di base. Da essa deriva dunque che per risolvere il problema del rapporto conoscitivo dobbiamo cercare di capire meglio la dimensione fisico-semiotica della significazione, ovvero ripensare il problema complessivo del rapporto conoscitivo in termini di semiotica della comunicazione, una semiotica che non disgiunga una dimensione semantica da una pragmatica ma che sia capace di forgiare un nuovo modello significazionale capace di superare la coppia suddetta e tutte le altre coppie concettuali sospette che essa porta, come abbiamo visto, inevitabilmente con sé. Si tratta in particolare a mio avviso di definire i contorni della dimensione fisico-semiotica cercando di non forzarlo né allinterno di una teoria gnoseologista del rispecchiamento, né naturalmente in un teoria idealistica.
E da questa indicazione che ho mosso per costruire una base teorica di riferimento che spero possa indicarci la via per una fondazione rigorosa di una teoria semiotico-filosofica della comunicazione umana (Vedi Teobaldelli: 2003, Cap. V).
E dunque utile un ulteriore analisi del problema della significazione e della comunicazione e precisamente quella del concetto di rappresentazione nelle sue recenti formulazioni e modellizzazioni nelle varie scienze umane (e sociali).
Tale confronto credo ci potrà fornire ulteriori indicazioni per approntare un modello della significazione rendendoci forse più chiaro il ruolo psicologico e sociale della dimensione fisico-semiotica. Da quanto analizzato in quel parziale confronto con il dibattito filosofico operato nella precedente analisi (Teobaldelli: 2003, Cap. II, III) si evidenzia infatti a mio avviso, con lunica eccezione di Cassirer, un abbandono delle tematiche legate alla rappresentazione dovuto molto probabilmente alla necessità di evitare ogni residuo di idealismo. Così da una parte la rappresentazione come dimensione mentale viene completamente inclusa nella referenza semantica al mondo reale (come nel Wittgenstein del Tractatus) oppure completamente depurata da ogni contenuto e astrattizzata in forme vuote trascendentali (leidetica di Husserl).
In Apel invece, si ha un tentativo di integrazione delle due tendenze, la referenza semantica presa così comè nella tendenza gnoseologista viene integrata da un riferimento pragmatico al contesto situazionale, senza quindi che si avverta lesigenza di un mutamento di modelli e concetti il quale sembra invece rendersi necessario. Il problema della significazione in termini di referenza semantica ad oggetti esistenti infatti preclude la possibilità di pensare ad un area scientifica che non abbia tali oggetti come suoi oggetti. Tale problema dunque riflette e prosegue quel weltknoten del dibattito filosofico che è il dualismo corpo-mente, materia-spirito. Scrive Moravia in proposito:
Attraverso il curioso, inattuale problema mente-corpo si esprimono (o si esprimono anche) alcune domande cruciali sul sapere in generale e sulluomo e la sua scienza:
a) si può dare qualcosa di esistente eppure non-fisico?
b) ha il sapere latu sensu fisicalistico la possibilità di descrivere e spiegare esaustivamente tutto <<ciò che vi è >> [...] oppure esiste qualcosa la cui cognizione (almeno quella di un certo tipo) esige un sapere autonomo rispetto a quello costruito secondo la struttura delle scienze fisiche? (Moravia: 1988)
Il modello semantico-referenziale infatti relega tutta la dimensione significazionale in un limbo extrafisico, una dimensione infondabile e impalpabile, e pone problemi difficilmente risolvibili ad esempio ad una semiotica del visuale.
Prendiamo un dipinto, un ritratto di Carlo VIII; esso in termini semantici-referenziali (ed anche semiotici generali) starebbe per Carlo VIII ma è anche evidente che non è Carlo VIII ma una rappresentazione del Carlo VIII che fu. Prendiamo ora il personaggio di un fumetto, ad esempio Tex Willer. Per cosa sta? Chi rappresenta? In termini gnoseologisti non si potrà mai rispondere ad una tale domanda se non formulando chissà quali improbabili architetture logiche. La rappresentazione, la costruzione di complessi fisico-semiotici, è qualcosa dunque di non strettamente dipendente dal mondo fisico-cosale, possiamo cioè dire che tra il segno e il mondo non vi è un rapporto causale rigido o biunivoco. Resta da vedere allora quale rapporto vi sia.
Tutto ciò ci conduce dunque alla necessità di mettere a tema a questo punto la cosiddetta facoltà di rappresentazione di cui lessere umano sembra esser dotato e che costituisce la simbolicità delluomo sperando che ce ne venga qualche ulteriore indicazione che possa illuminarci sulla natura di quale rapporto sia lecito ammettere e di conseguenza suggerirci quali modelli esplicativi se ne possano derivare.
Nel presente articolo cerchero dunque di individuare le linee teoriche principali entro le quali si modellizza nellindagine scientifica più recente delle scienze umane e sociali, il concetto di rappresentazione. Fare una trattazione esaustiva delle ricerche su tale oggetto di studi è cosa anchessa assai ardua data la molteplicità di approcci e di scuole, e richiederebbe un lavoro monografico sullargomento. Ai nostri fini invece credo sia sufficiente analizzare il problema della rappresentazione semplificando quelli che sono oggi (pur con differenze interne e incontri reciproci) due punti generali di vista della dimensione mentale e/o simbolica dell'uomo: quello cognitivo, dunque la rappresentazione come capacità fisica della mente umana, e quello psico-sociologico e dunque la rappresentazione come dimensione esperienzale del mondo e della società che ci circondano. E come si può capire subito una prosecuzione del problema del rapporto conoscitivo da un piano non più filosofico ad un piano teoretico sperimentale (e dunque anche empirico). In particolare si potrà credo, differenziare tali indagini empirico-scientifiche dalle problematiche argomentative del dibattito filosofico e trarne così una possibilità di confronto e vaglio dellun piano rispetto allaltro.
I due punti di vista cognitivo e psicosociologico non rappresentano due modi antagonisti di indagine nella dimensione dellumano, del pensiero, ma due modi differenti di concepire luomo stesso. Per il cognitivista puro infatti la dimensione psicologica (che è il presupposto della conoscenza e della possibilità significazionale) dipende da strutture appartenenti allorgano della mente (sebbene non identificabili con esso), alla cognizione.
Per lo psicologo sociale invece essa dipende da complessi meccanismi di relazione con lambiente (mondo fisico e società) nel quale tale dimensione acquisisce una sua identità.
E evidente che le due impostazioni di cui ci occuperemo risentono comunque di assunti più generali di matrice filosofica, si può dire oltretutto che il legame più o meno stretto tra lindagine psicologica e la speculazione filosofica è uno dei nodi cruciali del dibattito psicologico stesso. In particolare come vedremo si ripropone nella attuale opposizione in psicologia (con le dovute differenze) il dibattito fra una posizione di philosophy of mind e una di superamento della stessa in termini intersoggettivi. Il dibattito psicologico in questi termini ripercorre anche la problematica realismo/idealismo e il terreno di battaglia è anche qui rappresentato dalla analisi e interpretazione della dimensione simbolica, sebbene il rapporto fra il essa e il pensiero sia nei due approcci concepito in maniera differente.
Dunque il problema del rapporto conoscitivo, la relazione uomo-mondo, del quale abbiamo cercato di evidenziare le tematiche filosofiche, viene qui approfondito attraverso un approccio più diretto, ossia con un occhio al pensiero come facoltà osservabile e/o indagabile, come soggetto epistemico, empiricamente presente in tale rapporto.
Per quanto riguarda la psicologia cognitiva luomo come soggetto puro della filosofia dunque viene sostituito ora dalluomo-psiche. Si tratterà di vedere, ai nostri fini, se tale sostituzione sia un arricchimento fertile in grado di superare le problematiche del soggetto puro della filosofia o se al contrario esso non fa che riproporle in altra forma. Al tempo stesso cercheremo di individuare anche all'interno dell'area cognitiva eventuali differenziazioni rilevanti per il nostro argomento, ossia se si danno impostazioni che escano da un'ottica cognitivista pura. Uno dei primi a sviluppare un lavoro di tipo cognitivista ma ante litteram e' sicuramente Piaget. L'analisi intrapresa da Piaget ci conduce dunque ancora una volta alla necessità del superamento della coppia realtà/idealità suggerendo una via relazionale la cui modellizzazione e concettualizzazione appare, da un versante filosofico, ancora tutta da intraprendere.
La concettualizzazione di Piaget è indubbiamente una delle prime formulazioni cognitiviste, e sorprendentemente le fasi e le modalità dello sviluppo ontogenetico dell'intelligenza, elaborate da Piaget, sembrano anticipare uno dei concetti di base della psicologia cognitiva a base cibernetica, quello per cui l'organismo nella sua interazione con l'ambiente opera una continua regolazione dei propri processi, un continuo riadattamento. Come fa notare però il ciberneuta Glasersfeld (1987) alcuni hanno interpretato la teoria di Piaget concependo i suoi concetti di base (come quelli di accomodazione e di assimilazione) secondo una definizione classica, ortodossa, e il risultato è fondamentalmente quello di mettere da una parte la portata innovativa e radicale della teoria piagetiana:
"Il Risultato e una definizione di entrambi gli importanti concetti di Piaget che rende facile la loro acquisizione ma che in sostanza mette da una parte gli ultimi resti del Costruttivismo radicale. Lassimilazione secondo questa concezione e il farsi corpo di dati del mondo in strutture cognitive date, lAccomodazione ha a che vedere con la stimolazione esterna e conduce alladattamento delle strutture interne dellorganismo ad una realta esterna. Chi penserebbe dunque che Piaget sia un pensatore non ortodosso? (Glasersfeld: 1987, p. 102, traduzione mia)"
Il contributo più rilevante dell'opera di Piaget invece è stato quello di fornire una nuova strada per ripensare al dualismo soggetto-oggetto.
Per un inquadramento generale sarà utile far precedere lanalisi delle due tendenze da una breve retrospettiva storico-concettuale della psicologia così da poter disporre di un (seppur parziale e semplificato) background dei nodi teorici che affronteremo.
E comunemente
accettato che il padre della psicologia moderna sia stato Wilhelm Wundt con la
pubblicazione nel 1874 di Grundzüge der
physiologischen Psychologie che viene considerato come il primo trattato sistematico
della psicologia come scienza empirica. Con Wundt infatti per la prima volta la coscienza viene indagata al pari di un fenomeno
naturale attraverso un metodo sperimentale (allelaborazione del quale Wundt e la sua
scuola dedicarono molte energie) che doveva dare alla psicologia appunto lo stato di
scienza positiva al pari di quelle naturali. Ma era chiaramente il punto di arrivo di una
tendenza che aveva attraversato lo stesso pensiero filosofico dalla fine del 600 in
poi, con il trasferimento graduale della dignità scientifica dalla filosofia dellanima, il razionalismo dogmatico, ad una riflessione rivolta
allesperienza[2].
Loggetto rimaneva lo stesso, cioè la psiche
ma intesa non più come anima bensì (da Kant in
poi) come coscienza sintetica dei dati
percettivi. Lidealismo trascendentale kantiano infatti prepara la strada ad una
concezione mente-mondo in termini di stimolo percettivo e risposta; ad esempio alla nota
legge Fechner-Weber secondo la quale la
sensazione (Sinneswahrnehmung) è
proporzionale al logaritmo dellimpulso
o stimolo (Reiz). Da qui in poi la strada alla
psicologia come scienza empirica è quasi pronta e Wundt possiamo dire compie
lultimo tratto.
In particolare ciò si otteneva secondo Wundt dallanalisi introspettiva di ciò che accade nella mente, ovvero attraverso lanalisi dei contenuti di coscienza non intesi in un senso astratto generale quali proprietà di una facoltà (come nella psicologia introspezionistica di matrice empirista) bensì appunto quali contenuti empirici concreti dipendenti da stimoli oggettivi. Questa connessione tra stimolo fisico reale, concreto e il corrispondente stato coscienziale (reazione) analizzabile sperimentalmente era per Wundt la garanzia di oggettività scientifica.
In questo senso la coscienza veniva però soggetta ad un lavoro analitico di dissezione tra stati oggettivi separati fra loro, scomposta in elementi semplici ed irriducibili fra loro.
Limpostazione wundtiana venne sviluppata dallinglese E.B. Titchener che diede vita allo strutturalismo, secondo il quale se la mente è considerabile come lintera vita mentale di un individuo, la coscienza può essere vista invece come una struttura spazio-temporalmente data e fissata, e dunque descritta attraverso lanalisi dei suoi elementi semplici quantificabili (le sensazioni, le immagini mentali e gli stati affettivi) e la loro ricomposizione strutturale. Dallaltra parte delloceano si sviluppa intanto il funzionalismo le cui origini concettuali fondamentali sono costituite dallevoluzionismo darwinista e dalla filosofia pragmatista e sul quale influì più o meno esplicitamente comunque anche la scuola austriaca di Franz Brentano, soprattutto lattenzione data da tale scuola alla intenzionalità della coscienza. Secondo i funzionalisti lanalisi delle attività mentali è importante non tanto in sé, cioè per capire la dimensione specifica della vita di coscienza, ma per capire il loro funzionamento in termini di utilità nelladattamento all'ambiente e per levoluzione, ovvero la coscienza va indagata quale comportamento adattivo.
Limportanza del funzionalismo per gli sviluppi successivi è dunque a mio avviso laver introdotto per la prima volta una concezione forte dello schema stimolo-risposta supportata da una base teorica che attingeva direttamente al dibattito psico-filosofico della tradizione e da una base biologica, levoluzionismo darwinista.
E proprio questa concezione forte di stimolo-risposta quale istanza utilitarista-evoluzionista che sarà acquisita e sviluppata da una nuova corrente psicologica la quale oscurerà la tradizione introspezionista e capovolgerà la stessa psicologia, il comportamentismo.
Il comportamentismo nasce ufficialmente nel 1913 con la pubblicazione dell'articolo Psychology as the Behaviorist Views it di Watson e rappresenta un vero e proprio cambiamento di fronte rispetto alla psicologia precedente. Il comportamentismo infatti, sulla scia dell'evoluzionismo darwinista (e dell'idea che l'uomo sia, al pari degli altri animali, in continuo adattamento con l'ambiente) e del fisicalismo di fine ottocento, e successivamente anche della riflessologia russa (Secenov) e degli studi di Pavlov sul condizionamento, giunge a rifiutare l'analisi introspettiva spingendosi talvolta sino all'estremo opposto, rifiutando che tra i suoi oggetti di studio rientri la coscienza.
La finalità evidente è quella di dare alla psicologia uno status di scienza naturale, esatta, positiva, al pari della biologia e della fisica, rifiutando dunque ogni possibile soggettivismo analitico limitando lo studio alla manifestazione osservabile della psiche, cioe' appunto il suo comportamento adattivo. Cio' è perseguito, con Lloyd Morgan e E.L. Thorndike, attraverso una serrata e rigorosa analisi sperimentale sugli animali dalla quale scaturira' una delle piu' importanti leggi comportamentiste destinata ad avere un grande successo anche in altri campi[3], la legge dell'effetto. Secondo tale legge, l'adattamento ambientale avviene per una serie di "prove ed errori" che conduce l'animale a consolidare delle risposte comportamentali a stimoli esterni da riutilizzare in presenza di stimoli simili. Thorndike, che compì delle sperimentazioni con animali, osservò che la risposta corretta si verifica in frequenza maggiore quando ad essa segue una ricompensa (cibo); da tale osservazione egli derivò la cosiddetta legge empirica dell'effetto, secondo la quale un'azione accompagnata o seguita da uno stato di soddisfazione tenderà a ripresentarsi più spesso, un'azione seguita da uno stato di insoddisfazione tenderà a ripresentarsi meno spesso. Esplicitando le conseguenze teoriche di fondo, la legge comportamentista dell'effetto e del rinforzo concepiva l'interazione tra l'animale e l'ambiente in termini adattivi e utilitaristici e dunque ignorava il dato introspettivo supposto presente nell'azione comportamentale, e nel successivo sviluppo il comportamentismo arriva anche talvolta a negarne la co-presenza.
L'incontro di Watson con la riflessologia russa e la teoria del condizionamento di Pavlov, accentuano la visione positivistica della teoria comportamentista, soprattutto nella integrazione di una concezione estremamente primordiale dell'essere umano attraverso una estensione semplicistica dei risultati ottenuti sugli animali all'essere umano e alle complesse interazioni socio-culturali, delle quali la povertà euristica delle nozioni comportamentistiche non riuscì a dar conto in modo rilevante. In particolare il fatto che ogni organismo risponda in maniera incondizionata a stimoli esterni (come il famoso cane di Pavlov che salivava al suono della campanella che preludeva al cibo, fosse questo presente o no). Ad esempio Watson riteneva che il linguaggio venisse acquisito per condizionamento dal bambino attraverso l'associazione con gli oggetti e attraverso questo condizionamento si formasse il pensiero, che dunque sarebbe il risultato di un adattamento comportamentale all'ambiente (una risposta incondizionata) e dunque non avrebbe rilevanza per l'osservazione scientifica pari a quella del comportamento di cui è un mero derivato. Abbiamo già visto poi quali sono le conseguenze teoriche e metodologiche di un approccio semiotico-comportamentista come quello di Morris.
Resta da rilevare che, al di là dei limiti teorici e metodologici, derivanti dallo sfondo positivistico oggettivistico, pure in un qualche modo, spesso indiretto, il comportamentismo ha altresì contribuito a che la psicologia indirizzasse la propria attenzione anche all'ambiente in cui l'essere umano vive e pensa[4], al ruolo dell'esperienza. Soprattutto nel dibattito diretto e/o indiretto che si venne a determinare tra il comportamentismo e un'altra scuola di psicologia nata in ambito europeo all'incirca nello stesso periodo e poi trasferitasi negli States, la psicologia della Gestalt, dibattito acceso e fortemente contrapposto che diede però i natali ad una fusione (varia e differenziata) delle opposte tematiche e problematiche nell'ambito della psicologia sociale, quella psicologia cioè che ha poi contribuito alla nascita e allo sviluppo della Non-verbal Communication da noi analizzata nel primo capitolo. Per il comportamentismo infatti, che rimase comunque la psicologia dominante negli States sino all'arrivo del cognitivismo, la Gestalt offriva nozioni euristicamente più duttili nell'analisi della complessità socio-culturale.
La Gestalttheorie (o teoria della forma) nasce in contrapposizione all'introspezionismo elementare di Wundt, e le sue radici sono da una parte la tradizione filosofica trascendentale tedesca (Kant) e dall'altra la psicologia dell'atto di Brentano e la teoria della produzione di Meinong e gli sviluppi del padovano Benussi. La direzione gestaltista appare dunque subito chiara, essa si situa su un livello fenomenologico-trascendentale, per cui rifiuta sia l'introspezionismo wundtiano considerandolo troppo semplicistico e mentalistico, sia una concezione empirista che riconduca i 'contenuti' mentali a derivazioni passive degli 'oggetti' del mondo fisico. Si potrebbe dire che la Gestalt ha cercato di testare sperimentalmente la facoltà ordinatrice dei dati dell'esperienza di cui Kant aveva trattato nel suo criticismo.
Uno dei concetti basilari della Gestalt è quello attinto dall'opera di Von Ehrenfels che aveva indicato delle qualità globali, chiamate qualità-gestalt o qualità-Ehrenfels, per cui ad esempio un oggetto è costituito da parti ma non riducibile ad esse, ossia la qualità dell'oggetto è la relazione che sussiste nel tutto fra le varie parti, appunto la qualità-gestalt. E' evidente dunque che l'elementarismo wundtiano non poteva dar ragione di tali qualità, dato che esso procedeva ad una scomposizione quantitativa dell'oggetto nelle sue parti credendo che da una semplice composizione sommaria di esse si potesse giungere a spiegare tutto l'oggetto.
La Gestalt crede invece che il tutto sia più della somma delle sue parti, ossia che l'aspetto quantitativo delle parti non ha molto a che vedere con ciò che ne risulta, cioè l'oggetto, ma è bensì la sua qualità-gestaltica rilevante che ne determina il suo specifico essere. Il lavoro sperimentale della Gestalt si incentra dunque sull'analisi della percezione da un punto di vista fenomenologico dalla quale gli autori (Wertheimer, Koffka, Köhler etc.) traggono leggi non arbitrarie delle associazioni fra le parti, i principi di unificazione formale, cioè quelle regole che sussistono tra le parti e che danno origine alla sua forma specifica. In un certo senso dunque la Gestaltheorie si presenta come una psicologia cognitiva, sebbene diretta più verso le proprietà di organizzazione della percezione. Ad esempio il noto postulato dell'isomorfismo che tante polemiche ha suscitato ci appare oggi come un modello in direzione di una psicologia cognitivista; esso infatti stabilendo una identità strutturale fra qualsiasi manifestazione del livello fenomenico e i processi neuro-fisiologici ad essa sottostanti, al di là dei suoi limiti teorici, è comunque stato un primo tentativo di modellizzare la psiche in un modo nuovo che potesse evitare il dualismo mente-corpo senza ridurre l'uno o l'altro dei suoi poli.
Ma certamente il contributo più fertile ad una psicologia del pensiero è venuto dagli studi sul problem solving (Köhler:1921, Wertheimer: 1959) che ha portato ad un superamento della teoria comportamentista del trials-and-errors sostituendo ad essa il concetto di ristrutturazione del campo cognitivo (insight); tale processo di ristrutturazione modifica l'organizzazione percettiva riformulando la funzionalità degli oggetti presenti nel campo.
Il contributo più consistente della Gestalt nell'ambito delle problematiche conoscitive è invece rappresentato dalla sua critica all'empirismo, per cui il rapporto soggetto-oggetto non è meramente determinato dalla percezione passiva di un mondo ma da un rapporto di questo mondo con delle proprietà specifiche dell'essere umano.
A ricondurre la psicologia nell'ambito di un orizzonte più filosofico è Piaget, che assume una posizione di ulteriore complessità del rapporto soggetto-oggetto. Secondo Piaget infatti il rapporto è duplice in quanto i dati della percezione non sono il riflesso del mondo bensì essi vengono elaborati dall'organismo percipiente, essi però modificano, influenzano l'organismo stesso, per cui si ha un processo di adattamento duplice. Piaget non si limita a fare di questa concezione uno schema generale in un certo senso puro: il problema va inquadrato anche nell'ambito dello sviluppo dell'organismo dall'infanzia alla fase adulta. Il processo percettivo-adattativo infatti si svolge lungo una storia ontogenetica dell'essere. Tale acquisizione pone degli indubbi aspetti di novità nell'ambito del problema gnoseologico, poiché l'ente viene per la prima volta (in maniera rilevante) concepito come un ente fisico-biologico non puro, un ente che ha una sua storia oltre che una sua struttura:
"Cominciando da azioni a senso unico, la conoscenza è dapprima centrata sull'attività propria, donde questo egocentrismo di cui l'irreversibilità logica è l'espressione più diretta. Al contrario, nella misura in cui le azioni si coordinano, e si interiorizzano così in operazioni, i gruppi operatori decentrano l'azione stessa inserendola in sistemi di trasformazioni reversibili: ma allora tutto il sistema delle operazioni individuali è messo in corrispondenza, in virtù del loro raggruppamento stesso, con le operazioni di altri e questa corrispondenza inter-individuale costituisce da sola un raggruppamento logico d'insieme. (Piaget: 1947, cit. p. XV)"
Dunque il pensiero, la mente non è qualcosa di pre-dato, bensì un mondo che si costituisce in relazione, attraverso uno sviluppo che non è puramente logico né puramente esperenziale:
"Così ogni operazione è solidale con un insieme di co-operazioni: la cooperazione sociale e la elaborazione degli aggruppamenti operatori costitutivi della logica stessa non sono in definitiva che le due faccie di una sola e stessa realtà (Piaget: 1947, cit. p. XV)"
L'io come dimensione del sé si costituisce attraverso una complessa corrispondenza, attuata su più piani e non puramente e meramente logica, con il mondo e con gli altri.
"Tutto lo sviluppo dell'intelligenza consiste così in una coordinazione progressiva delle azioni: dapprima materiali e poco coordinate, esse s'interiorizzano coordinandosi; e una tale coordinazione si traduce, mediante una reversibilità crescente, fino allo stato di equilibrio riconoscibile da questa reversibilità completa delle operazioni logiche e matematiche di cui ciascuna comporta la possibilità di una operazione inversa (Piaget: 1947, cit. p. XI)".
In questo senso la critica di Piaget si rivolge contro chi cerca di applicare anche ai bambini categorie logico verbali già compiute e prefissate
"[...]la reazione ai dati immediati e presenti non e' solo percettiva e la percezione stessa, che e' un'organizzazione dei dati sensoriali, comporta numerosi piani di strutturazione distinti. La percezione non e' una semplice registrazione, in quanto e' anche identificazione o assimilazione, il che comporta uno schematismo (Piaget e Inhelder: 1968, cit. p. 5)"
Dunque la percezione non è un semplice evento passivo, la mera registrazione di dati oggettivi provenienti dal mondo esterno. E allo stesso modo la rappresentazione mentale non è il rispecchiamento di una realtà esterna oggettiva, il ragionamento logico non segue la forma del mondo: In particolare preme a Piaget di dimostrare che esperienza mentale e esperienza logica non sono la medesima cosa, bensì che l'una precede l'altra e la costituisce durante la storia ontogenetica. L'argomentazione che Piaget usa per dimostrare questo assunto è ai nostri fini estremamente interessante:
"La questione del ragionamento ed in particolare della contraddizione del bambino tocca da vicino il problema della modalità, cioè dei diversi piani di realtà sui quali si muove il pensiero infantile. [...]Vi è nel pensiero infantile tutta una gamma di piani di realtà tra i quali forse non vi è nessuna gerarchia e che favoriscono così l'incoerenza logica. Vi è almeno un problema da discutere.
Conviene, prima di intraprendere questa discussione, ricordare due verità. La prima è che per un pensiero egocentrico il giuoco tiene in conclusione luogo di legge suprema. E' uno dei meriti della psicanalisi di avere dimostrato che l'autismo non conosce adattamento al reale, perché per l'io, il piacere è la sola molla. Il pensiero autistico ha così per unica funzione quella di dare ai bisogni e agli interessi una soddisfazione immediata e senza controllo, deformando il reale per adattarlo all'io. Il reale è, infatti, per l'io plastico all'infinito, poiché l'autismo ignora questa realtà comune a tutti che distrugge l'illusione e costringe alla verifica. D'allora in poi, nella misura in cui il pensiero infantile resterà penetrato di egocentrismo, la questione della modalità dovrà porsi sotto questa forma pregiudiziale: non esiste che una realtà per il bambino, vale a dire che una realtà suprema, pietra di paragone per utte le altre (come sarebbe per un adulto il mondo dei sensi o per un altro il mondo costruito dalla scienza od anche il mondo invisibile del mistico), oppure, secondo i suoi stati di egocentrismo o di socializzazione, il bambino si troverà in presenza di due mondi ugualmente reali e ciascuno dei quali non riesce a soppiantare l'altro? E' evidente che quest'ultima ipotesi è la più probabile (Piaget: 1947, cit. pp. 253-254)"
Questi due piani di realtà dipendono innanzitutto dall'irreversibilità dell'esperienza mentale e materiale del mondo. Il bambino esperisce un mondo sensibile in maniera diretta e irreversibile:
"L'esperienza mentale è una riproduzione, per mezzo del pensiero, degli avvenimenti quali si succedono di fatto in natura [...] Come tale, l'esperienza mentale ignora il problema della contraddizione: essa dichiara semplicemente che un tale risultato è possibile o effettivo partendo da un tal punto di partenza, ma esso non giunge mai a concludere che due giudizi sono contradditori tra loro. In ogni modo, l'esperienza mentale, come la stessa esperienza materiale è irreversibile; val quanto dire che partendo da a e trovando b, essa non saprà necessariamente ritrovare a, o almeno, se essa ritrova a, essa non saprà dimostrare che si tratta proprio di a e non di a diventato a' [...]
Ma l'esperienza logica che interviene a perfezionare questa esperienza mentale, e che sola le conferisce la qualità di una vera e propria esperienza, introduce nondimeno un carattere nuovo che è fondamentale: è una esperienza del soggetto su se stesso in quanto soggetto pensante, esperienza analoga a quella che si fa su stessi per regolare la propria condotta morale; è dunque uno sforzo per prendere coscienza del proprio operato [...].
In questo senso, l'esperienza logica differisce molto dall'esperienza mentale: questa è la costruzione di una realtà, è la presa di coscienza di questa realtà; l'esperienza logica, invece, è la presa di coscienza e la regolarizzazione del meccanismo stesso della costruzione. (Ibidem, cit. p. 244-245)"
E il processo di regolarizzazione logica dell'esperienza mentale rende quqest'ultima reversibile, applicandole assunzioni, convenzioni, definizioni ecc.
L'argomentazione di Piaget dunque ci introduce ad una nuova problematizzazione del realismo, individuandolo come punto di arrivo di una fase di sviluppo ontogenetica, e non come oggettività data, accessibile direttamente. Anzi, al contrario, ciò che all'adulto sembra realtà dipende da un processo di mediazione tra l'esperienza sensibile del mondo e quella del sé, e quindi il senso del reale non è che un continuo processo di equilibrio tra il sé ed il mondo, basato sulla continua e sistematica regolarizzazione del vissuto quotidiano.
L'analisi intrapresa da Piaget ci conduce dunque ancora una volta alla necessità del superamento della coppia realtà/idealità suggerendo una via relazionale la cui modellizzazione e concettualizzazione appare, da un versante filosofico, ancora tutta da intraprendere.
L'impostazione dualistica soggetto-oggetto e la versione datane dalla psicologia in termini di stimolo-risposta, viene riformulata anche dalla cibernetica.
Si tratta di vedere tuttavia, se tale innovativa versione sia in grado di superare i limiti emersi dall'impostazione classica rispetto al linguaggio e alla comunicazione, soprattutto in quanto nella cibernetica (dal suo nascere sino ad oggi) la categoria di base è quella di informazione della quale ho già individuato nella precedente analisi le numerose contraddizioni cui esso conduce da una punto di vista conoscitivo, semiotico, comunicazionale e filosofico.
Non è mia intenzione operare qui un bilancio globale della cibernetica, tuttavia cercherò di sottoporre ad analisi le impostazioni da esse emergenti che siano attinenti alla ricerca qui in oggetto, cioè quelle che toccano da vicino il prolema della comunicazione e della significazione e quello relativo e fondante del rapporto conoscitivo.
La cibernetica prosegue la strada intrapresa dalla scienza sperimentale dall'impulso dato dalla divisione cartesiana fra res cogitans e res extensa e dalla conseguente modellizzazione meccanicistica dell'essere umano; versione che proseguirà incessante passando per varie trasformazioni e opposizioni (vitalismo) sino alla versione novecentesca, quella cibernetica appunto, secondo cui l'uomo può essere paragonato ad un meccanismo simile al famoso omeostato di Ashby[5], ovvero ad un meccanismo in grado di modificare (attraverso sistemi di retroazione, cioè feedback sia esso positivo e/o negativo) continuamente la propria attività adattandosi a mutamenti del proprio ambiente per soddisfare la meta. Il termine cibernetica significa infatti, nel greco antico, timoniere.
Ora tale analogia fra il meccanismo cibernetico e l'essere umano può essere però di diverso tipo e grado.
La cibernetica, nel solco della tradizione fisiologista, intende il meccanismo di feedback e di regolazione come un modello della base neurofisiologica del pensiero e dunque un modello che possiamo definire tecnico della comunicazione e del pensiero. In questo caso i nostri risultati emersi nei primi capitoli non ci presenterebbero alcuna contraddizione con questa tesi. Che la categoria di informazione possa essere concepita come nozione tecnica della comunicazione non è un problema, a meno che non si abbia la pretesa di estendere tale nozione fuori dall'aspetto meramente fisico-tecnico (come in Eco e purtroppo in buona parte degli studi semiotici e comunicazionali).
In ogni caso abbiamo già visto brevemente[6] che la teoria matematica dell'informazione riguardava solamente l'aspetto tecnico fisico della trasmissione.
Anche nella cibernetica l'ipotesi di base riguardava dapprima solamente l'aspetto tecnico-fisiologico, ma è proprio da essa che la nozione di informazione uscirà dal livello meramente tecnico per assumere dignità filosofica e psicologica, tanto da divenire quasi una nozione sacra e inviolabile[7]. In particolare si cominciò a pensare all'attività mentale come elaborazione di informazioni, cioè alla possibilità di costruire una macchina elettronica in grado di simulare l'intelligenza; è la nascita della cosiddetta intelligenza artificiale la quale reca con sé purtroppo anche un ampliamento della portata euristica della nozione di informazione. Soprattutto allorquando il rapporto di dipendenza dei termini viene rovesciato, cioè quando la nozione di informazione non e' piu' intesa come nozione tecnico-euristico con la quale costruire macchine in grado di simulare alcuni aspetti e comportamenti dell'intelligenza umana, ma piuttosto quando si e' iniziato a pensare che il funzionamento di tali macchine potesse essere usato come modello euristico per la comprensione dell'intelligenza umana e del suo comportamento.
Insomma l'essere umano è divenuto non il modello da studiare per sviluppare macchine capaci di simulare alcune attività dell'umano, bensì il modellizzato, per cui si è andati costruendo un modello dell'attività umana basato sul comportamento di tali macchine. Un rovesciamento completo che concepisce l'attività cognitiva umana come esauribile dal modello di algoritmo della famosa macchina di Turing.
Non intendo negare tout court la validità della simulazione dell'attività umana con macchine elettroniche, le quali possono essere chiaramente utili per provare alcune teorie sull'attività cognitiva, ma certamente mi sembra criticabile che si pensi di poter dire che l'attività cognitiva umana funzioni esattamente come un calcolatore. Insomma che un computer sia in grado di simulare alcuni tratti dell'intelligenza umana non è prova sufficiente per prescrivere che la chiave dell'intelligenza umana risieda nel modello utilizzato per costruire macchine simulatrici di essa. Comunque una discussione approfondita della validità epistemologica dell'Intelligenza Artificiale esula dai limiti e dai fini del presente lavoro.
Da un punto di vista semiotico-comunicazionale abbiamo già analizzato ed evidenziato i numerosi nodi teoretici che emergono dall'uso non meramente tecnico della nozione di informazione e ribadiamo la nostra ferma intenzione di non avvalercene[8].
La Psicologia Cognitiva.
La psicologia cognitiva nasce e si sviluppa intorno agli anni 50'; tuttavia essa non sembra avere all'inizio la consapevolezza del suo carattere di rottura e di innovazione rispetto alla psicologia in voga in quegli anni, cioè il comportamentismo, dal quale e nel quale essa infatti prende l'avvio. Uno dei primi lavori pioneristici che ne annunciano la sua nascita è infatti quello svolto da Craick a Cambridge negli anni della seconda guerra mondiale, una ricerca comportamentista e cibernetica allo stesso tempo. Craick analizzò le risposte comportamentali umane in un compito di tracking, ossia di puntamento continuo in uno schermo di un segnale su di un bersaglio mobile. Dall'osservazione sperimentale Craick vide che l'essere umano è in grado di operare una correzione del puntamento ogni 5 secondi circa e ne concluse quindi che tale tempo era il tempo occorrente al meccanismo umano per elaborare l'informazione del campo visivo ed emettere la conseguente risposta comportamentale.
Il lavoro di Craick apriva la strada sia alla similitudine uomo-automa, ossia alla considerazione dell'essere umano come meccanismo cibernetico e alla conseguente simulazione dei suoi processi attraverso macchine cibernetiche, sia alla considerazione del comportamento cognitivo. Per la prima volta infatti si era dimostrato che vi era un meccanismo decisore unico che era anche indicatore di processi mentali.
Lo studio di Craick diede luogo a numerosi altri studi sul funzionamento dei processi cognitivi quali la memoria a breve e a lungo termine
Il cognitivismo si intrecciò sin dall'inizio però con la cibernetica e con la teoria dell'informazione. Nel 1960 un libro destinato poi ad essere famoso, ad opera dello psicologo Galanter, dello psicolinguista G.A. Miller e del neuropsicologo Pribram, (Galanter-Miller-Pribram: 1960) elaborarono il modello TOTE (test-operate-test-exit) che doveva sostituire quello comportamentista del riflesso. Il TOTE è praticamente il modello di analisi del comportamento cognitivo: test, cioè verifica dell'ambiente, operate, cioè modifica dell'ambiente in vista del fine, test, verifica se la modifica operata è adeguata nel cui caso si avrà dunque poi l'exit, cioè la chiusura del processo.
Come si vede e' la modellizzazione di un comportamento-meccanismo molto simile a quello elaborato dalla cibernetica, quello algoritmico o omeostatico. Il vecchio modello comportamentista stimolo-risposta viene messo da parte a favore di un meccanismo più sofisticato dove si ha l'esecuzione di un comportamento attraverso una procedura di controllo-operazione, controllo-operazione, ossia un meccanismo di retroazione e di correzione continua.
Dal nostro punto di vista però il problema è:
· questo modello riesce a dar conto del cosiddetto comportamento linguistico, della comunicazione e significazione?
Come abbiamo già ampiamente detto il modello informazionale crea numerosi problemi teorici nell'ambito degli studi sulla comunicazione. La questione relativa alla psicologia cognitiva e alla cibernetica è allora:
· esistono modelli cibernetici e/o cognitivi che siano in grado di risolvere quei nodi che abbiamo individuato nei capitoli precedenti, oppure tali nodi dipendono in una certa misura dagli stessi modelli cibernetici e/o cognitivi?
Il modello imperante relativo all'analisi del linguaggio nell'ambito della psicologia cognitiva (che veniva introdotto proprio dall'opera su citata) è quello della grammatica generativa-trasformazionale di Noam Chomsky, ovvero una concezione della lingua intesa in un modo simile a quello del gioco del meccano, dove si hanno diversi pezzi combinabili tra loro, sebbene tale combinazione sia non libera ma soggetta a certe regole per le quali alcuni pezzi non possono seguire o precedere altri ecc. Tale concezione vorrebbe essere la chiave delle funzioni logiche universali che sottostanno al linguaggio. E' insomma una teoria a-priori per cui v'è una struttura linguistica universale, una specie di serbatoio comune per definizione a tutti gli esseri umani, che viene poi riempito a livello esperienzale senza venirne modificato. Da qui la polemica fra universalisti e relativisti che sembra rieditare sub-specie linguistica la polemica fra razionalisti e empiristi.
Da un lato Chomsky e i seguaci del neopositivismo logico ad asserire che il linguaggio e' innato nelle sue strutture logiche, dall'altra Whorf, storici della scienza, e filosofi vari ad asserire che lo sviluppo del linguaggio è relativo dipendendo esso in una certa misura dall'esperienza e dalla cultura specifica.
Il problema che emerge dall'impostazione generale della cibernetica e della psicologia cognitiva sembra a mio avviso essere un problema di incongruenza di piani. Se da un lato il concetto di informazione e di retroazione sembra essere valido per costruire modelli di alcune attività e comportamenti dell'essere umano, dall'altra la sua potenzialità euristica per quanto attiene al fenomeno della comunicazione sembra piuttosto scarsa, dati i risultati finora ottenuti dalla loro applicazione in ambito semiotico e/o di teoria della comunicazione.
Il problema di fondo rimane sempre infatti quello significazionale, termine che preferisco e uso al posto di semantico che a mio avviso presuppone l'impostazione dualistica evidenziata nei capitoli precedenti; come abbiamo visto la nozione di informazione se valida dal punto di vista tecnico non lo è altrettanto da quello semantico. Cosi' ugualmente la teoria chomskyana sembra essere valida solo dal punto di vista sintattico e non da quello semantico[9].
Tuttavia sia nell'ambito della psicologia cognitiva che in quello cibernetico alcuni autori hanno sollevato qualche dubbio intorno all'uso semplicistico della nozione di informazione; in ambito cognitivista ad esempio Neisser (1976) con un libro che ha gettato scompiglio fra le file della psicologia cognitivista, e in ambito cibernetico un recente articolo di Søren Brier (1992).
Inutile dire che un confronto delle nostre osservazioni critiche della nozione di informazione con quelle elaborate da tali autori non può che essere fruttuoso.
Informazione e psicologia
cognitiva: la critica di Neisser.
Neisser è stato uno dei primi psicologi consapevoli della portata innovativa della psicologia cognitiva. Cognitive Psichology, il suo libro del 1967, inaugurava ufficialmente il nuovo indirizzo in psicologia. MA nove anni più tardi in Cognition and Reality. Principles and Implications of cognitive Psychology, nel fare il punto della nuova disciplina psicologica, egli critica abbastanza duramente le ricerche cognitiviste ritenendo che:
"[...] lo sviluppo della psicologia cognitivista di questi ultimi anni è stato purtroppo alquanto ristretto, limitandosi a sottolineare gli aspetti interni, relativi all'analisi di specifiche situazioni sperimentali, anziché proiettarsi al di fuori del laboratorio (1976, cit. p. 21)"
Dunque l'accusa è quella di essersi troppo rinchiuso nell'analisi di fenomeni puramente sperimentali, di laboratorio, e di aver così perso la realtà, di aver ridotto quindi la ricerca teorica a ragionare su microprocessi costruiti tra l'altro in vitro.
Neisser muove questa critica perché è convinto che la psicologia, riguardando essa gli esseri umani, abbia il compito ed il dovere di provare a dare delle risposte intorno alle questioni fondamentali della natura umana, risposte che non è possibile perseguire se ci rinchiude ad analizzare la sola realtà artificiale costruita in laboratorio.
A tale proposito Neisser cita anche l'analogia uomo-calcolatore sviluppando un ragionamento che ritengo rilevante, ai fini del presente lavoro, riportare fedelmente. Egli spiegando l'evoluzione portata in psicologia dal movimento cognitivista nel suo essere una nuova psicologia del mentale che non presenta quei limiti meccanicistici propri dell'introspezioni classica, annovera anche l'avvento del calcolatore tra i fatti che hanno permesso tale evoluzione :
"Numerose sono state le ragioni di questa evoluzione, ma la più importante era probabilmente connessa con l'avvento del calcolatore e questo non tanto perché i calcolatori consentissero più agevoli sperimentazioni o analisi dei dati, cosa che peraltro facevano, quanto perché le attività stesse del calcolatore sembravano in qualche maniera affini ai processi cognitivi. Non era tanto importante che facessero queste operazioni proprio come fanno gli uomini ma era importante che le facessero. L'avvento del calcolatore ha fornito la sicurezza, quanto mai necessaria, che i processi cognitivi fossero reali e che questi processi potessero essere studiati e forse compresi. Ha fornito inoltre un nuovo vocabolario e un nuovo sistema di concetti che trattano dell'attività cognitiva; termini quali informazione, input, elaborazione, codificazione e subroutine sono ben presto diventati patrimonio comune (Ibidem, cit. p. 29)"
Neisser prosegue ribadendo la positività della metafora del calcolatore quale mente umana, e la sua convinzione espressa nell'opra precedente (Neisser: 1967) che il concetto di elaborazione di informazioni dovesse essere studiato a fondo nel suo essere sistemico, cioè che si dovesse studiare il modo in cui la mente organizza il flusso di informazioni. Ma tale studio:
"[...]non si è ancora impegnato a formulare concezioni della natura umana tali da applicarsi oltre i confini del laboratorio, e all'interno del laboratorio stesso i suoi assunti base vanno poco oltre il modello per calcolatore cui deve la propria esistenza. Non viene ancora fornita alcuna spiegazione di come gli uomini agiscono o interagiscono col mondo quotidiano. In verità gli assunti che si colocano alla base della maggior aprte degli studi contemporanei sull'elaborazione di informazioni sono sorprendentemente simili a quelli della psicologia introspezionista del XIX secolo, sia pure senza l'introspezione stessa (Ibidem, cit. p.30)."
L'accusa che Neisser opera non è delle più leggere. Praticamente a suo dire la psicologia cognitiva è ricaduta in un introspezionismo ottocentesco, dato che si occupa soltanto di processi interni alla mente in modo quasi meccanicistico:
"molti degli attuali modelli dei processi cognitivi considerano la coscienza come si trattasse semplicemente di uno stadio particolare di elaborazione nell'ambito di un flusso meccanico di informazioni (Ibidem, cit. p.22)"
Neisser suggerisce un ritorno alla realtà concreta, ambientale, quella che egli definisce una direzione più realistica, ossia un ritorno all'osservazione dei fenomeni umani considerati nel loro ambiente.
Ciò comporta, secondo Neisser, un confronto con le nozioni di realtà, percezione e mente, il cui nesso e' parte dell'oggetto di studio della psicologia cognitiva. Non si può studiare la cognizione come fenomeno puro e fondamentalmente interno, mentale, senza incorrere appunto in quel meccanicismo introspezionistico proprio degli albori della psicologia.
Il concetto chiave di questo nesso è secondo Neisser la percezione:
"[...] la percezione si colloca al punto d'incontro fra attività cognitiva e realtà. Mi pare che molti psicologi non comprendano a fondo la natura di tale incontro. L'opinione prevalente, a questo proposito, tende a glorificare il percettore, cui si attribuisce il compito di elaborare, trasformare, ricodificare, assimilare, ovvero in generale dare forma a ciò che, senza tale attività, sarebbe un caos privo di significato. Ma non può essere così: con la percezione, così come con l'evoluzione, si tratta sicuramente di scoprire che cos'è realmente l'ambiente e come adattarvisi (Ibidem, cit. p. 33)"
Ovvero si tratta di studiare a fondo la complessità della percezione (ed il ruolo che essa gioca nella storia anche evolutiva dell'ente, cioè nei suoi aspetti ontogenetici), senza lasciarsi prendere da facili scorciatoie che però ci riporterebbero indietro di qualche secolo alla teoria del rispecchiamento, fornendoci di modelli semplicistici e riduttivi della percezione e di esiti altrettanto scadenti nella applicazione in altri campi (ad. esempio nella teoria semiotica).
L'opera di Neisser ci offre a questo riguardo degli spunti interessanti, soprattutto su quel nesso che lega la cosiddetta realtà oggettiva e la dimensione umana, coscienziale, cognitiva. E lo fa problematizzando proprio la visione tecnica del modello informazionale, evidenziando quanto essa sia poco rilevante per lo studio dei processi reali:
"Nelle situazioni reali l'informazione è infinitamente ricca. C'è sempre da vedere più di quanto ciascuno conosca. Perché non riusciamo a vedere tutto?
La risposta che più spesso ci viene offerta è che noi filtriamo (l'informazione). L'aspetto seducente di questa formulazione sta nel fatto che, da un punto di vista formale, essa è perfettamente corretta. Nell'ambito della teoria matematica dell'informazione il filtro è un espediente input-output tale per cui talune delle informazioni che arrivano all'input non hanno alcun effetto sull'output. Formalmente parlando, ogni essere umano filtra le radiazioni cosmiche, il pulviscolo atmosferico, e ogni altro tipo di informazione che non influenza il suo comportamento. Psicologicamente e biologicamente tuttavia, tale nozione non ha senso. Non esiste un meccanismo, processo o sistema che funzioni per respingere questi stimoli, i quali sarebbero percepiti se tale sistema dovesse fallire, semplicemente il percettore non li raccoglie, perché non è attrezzato a farlo. Lo stesso principio vale anche quando egli dispone dell'attrezzatura sensoriale atta a percepire qualcosa ma gli manca semplicemente l'abilità di applicarla, cioè non ha avuto luogo il necessario apprendimento percettivo. Del resto, la selezione è un processo positivo, non negativo. I percettori colgono solo quello per cui possiedono schemi, e volenti o nolenti ignorano il resto (Ibidem, cit. p. 103)"
Al pari di quanto operato da me nella precedente analisi da un punto di vista semiotico-comunicazionale (Vedi Teobaldelli: 1993-94, 1995, 1999), anche Neisser punta il dito contro la passività implicita nel modello informazionale. E sorprendentemente la sua critica si muove proprio intorno al dilemma del realismo e della significazione. Egli sostiene infatti che dal modello input-output passivo di elaborazione delle informazioni derivano alcuni problemi riguardanti oltre alla selezione anche lo sviluppo percettivo, il significato e la veridicità del percetto. In particolare non si spiega il fatto che persone diverse abbiano costruzioni diverse della stessa situazione, che si percepiscano i significati degli eventi e non le loro caratteristiche esterne; come mai la percezione nonostante il suo meccanismo non sia completo e adeguato completamente, ci renda comunque rappresentazioni corrette dell'evento; e come funzioni l'apprendimento e lo sviluppo percettivo.
Tutte queste questioni possono essere affrontate secondo Neisser soltanto modificando la teoria della elaborazione di informazioni, abbandonando la convinzione che:
"la funzione della percezione sia quella di informarci sulle cose quali puri oggetti: pezzi di materia geograficamente e fisicamente definiti che sono ciò che sono sia che li guardiamo sia che non li guardiamo. Questo è vero, ma è ben lungi dall'essere la completa verità. Nell'ambiente normale gli oggetti e gli eventi più percepibili sono dotati di significato: essi consentono svariate possibilità d'azione, comportano implicazioni su ciò che è avvenuto o che avverrà, appartengono coerentemente ad un contesto più ampio, possiedono un'identità che trascende le loro semplici proprietà fisiche (Ibidem, cit. p. 94)"
Mi sembra che Neisser confermi la mia ostinazione nell'evidenziare il ruolo dell'attività fisico-semiotica, quale processo attivo produttivo di interazione con l'ambiente. Neisser parla di schemi, di mappe cognitive che ci permettono di orientarci e di esperire il mondo, il nostro ambiente:
"Lo schema è quella parte dell'intero ciclo percettivo che è interna al percettore, modificabile dall'esperienza, e in qualche modo specifica rispetto a ciò che viene percepito. Lo schema accetta le informazioni man mano che si rendono disponibili a livello di superficie sensoriale, ed è modificato da tali informazioni; guida i movimenti e le attività esplorative che consentono una quantità maggiore di informazione, da cui è ulteriormente modificato.
Dal punto di vista biologico lo schema fa parte del sistema nervoso. [...] C'e' scarsa probabilità che questa attività fisiologica sia caratterizzata da una singola direzione di flusso o da sequenze temporali unificate. Essa non comincia semplicemente alla periferia per poi arrivare alla fine in un qualche centro, ma deve includere molti tipi di pattern collaterali e di reciprocazione (ibidem, cit. p. 78)".
E un altro passo di Neisser sembra liquidare indirettamente anche la teoria semantica basata sull'associazione categoriale tra segni e significati e oggetti, o sulla relazione type-token, poiché:
"Percepire non è assegnare oggetti a categorie; infatti poiché dipende da un flusso di stimolazioni che cambia in modo unico nel tempo, lo sviluppo dello schema in ogni particolare occasione è altrettanto unico. [...] Sebbene non si possa portare avanti nessuna discussione sulla percezione senza fare uso di concetti astratti [...] i quali si applicano ugualmente bene a migliaia di esempi individuali, il percettore normalmente non li usa. Proprio come non esiste un singolo momento in cui io vedo una sedia, così non deve essercene alcuno in cui io riconosco tale sedia. Probabilmente non adotterò alcuna categorizzazione a meno che la situazione in qualche modo la richieda. Io posso sedermici, scansarla, spostarla, cercare sotto il cuscino la pipa che ho perso, o notare che ingombra un po' troppo, senza neanche nominarla, né ad altri né a me stesso. Mentre si può dire che ciascuna di tali attività la categorizzi implicitamente, esse lo fanno ciascuna in modo diverso e unico (Ibidem, cit. p. 98)"
Neisser riprende e sviluppa il concetto di mappa cognitiva di Tolman (1948), che egli definisce anche schema d'orientamento. La mappa cognitiva è uno schema d'orientamento che ci permette di orientarci appunto nello spazio, tra gli oggetti ed eventi del nostro ambiente. Neisser insiste però sulla fallacia di alcune concezioni passive della mappa cognitiva, ovvero di quelle concezioni secondo cui la mappa cognitiva consiste, dopo l'acquisizione (passiva) di informazioni e la ricostruzione di tali dati, in una immagine mentale. La critica di Neisser si rivolge soprattutto allo schema sequenziale dell'acquisizione di dati e di elaborazione degli stessi:
"Si è detto che esistono stadi successivi o livelli successivi di elaborazione. Si è supposto che nel vedere una parola stampata, ad esempio, noi prima determiniamo le caratteristiche grafiche delle lettere individuali, poi identifichiamo le lettere, poi identifichiamo la parola stessa e infine, forse, la assegniamo ad una particolare categoria o tipo semantico. L'esempio di schema e mappa cognitiva suggerisce un modello alquanto diverso della relazione fra attività di ordine diverso. Esse sono incorporate, piuttosto che successive (Ibidem, cit. pp. 134-135)"
Neisser insomma ritiene che vi sia una tendenza a separare ciò che in realtà appare inseparabile, ovvero il percettore e l'ambiente sussistono insieme, il percettore è nell'ambiente in una interazione continua per cui un modello che tenda ad astrarre questa continuità riducendola ad una sequenzialità temporale non rende conto della realtà empirica del fenomeno che intende studiare.
Ma di estremo interesse per la nostra trattazione sono a mio avviso le considerazioni di Neisser relative all'esempio della navigazione Puluwat che egli riprende dall'opera dell'antropologo Thomas Gladwin (1970), uno studio appunto della navigazione dei Puluwat delle Isole Caroline. Neisser cerca di interpretare la mappa cognitiva che guida la navigazione dei Puluwat, l'etak, una struttura concettuale che i Puluwatani usano per navigare. In particolare Neisser pone in rilievo il fatto che tale mappa cognitiva si avvale di dati percettivi quali la posizione delle stelle rispetto ad ogni coppia di isole, segnali marittimi quali i cambiamenti di colore dell'acqua, o il ritmo delle correnti ma guidando tale percezione dell'ambiente attraverso uno schema astratto basato su di una immaginaria isola di riferimento che non è mai presente alla percezione visiva, e rispetto alla cui posizione i Puluwatani orientano la navigazione. Le osservazioni di Neisser criticano le interpretazioni oggettivistiche e realistiche di tale isola di riferimento, per cui tale isola di riferimento sarebbe una reale e potenziale isola di salvezza verso cui i Puluwatani potrebbero veleggiare in caso di condizioni meteorologiche di pericolo:
"Si noti la natura di questo errore: è un'interpretazione eccessivamente concreta dell'idea astratta del navigatore (Ibidem, cit.p. 144)"
Ai fini della nostra trattazione l'esempio dell'etak puluwatano ci può far comprendere ulteriormente la povertà della concezione oggettivistica e positivistica del pensiero occidentale, la sua incapacità di afferrare in pieno la potenzialità del simbolismo come attività cognitiva che ci permette di operare nel nostro ambiente fornendoci di mezzi e strumenti molto potenti non riducibili, non appiattibili al rispecchiamento logico di oggetti e/o stati di cose.
E in tal senso il modello informazionale ci appare ancora una volta euristicamente debole.
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[1] Per laspetto principalmente storico concettuale di questo paragrafo il mio debito più consistente va alla Storia della Psicologia di Paolo Legrenzi (Legrenzi: 1980).
[2] Tendenza che si riflesse anche in alcune opere razionaliste, ad esempio quella di Wolff che distinse una psicologia razionale da una psicologia empirica.
[3] Ad esempio nel campo della comunicazione di massa in cui la teoria del riflesso incondizionato divenne uno dei concetti cardine delle teorie dei mass media
[4] In un certo senso il comportamentismo ha comunque imposto ad ogni psicologia che avesse voluto porsi in opposizione ad esso, di confrontarsi con tematiche esterne alla mente soprattutto sulla relazione di questa con l'ambiente. E' altresì da notare però che già la Gestalt, prima di venire a pieno contatto con il comportamentismo, aveva già posto il problema cercando anch'essa di superare l'introspezionismo wundtiano.
[5] Costruito in risposta alle obiezioni del vitalista Hans Driesch, esso doveva dimostrare che la caratteristica della equifinalità non era caratteristica solamente umana.
[6] Ne ho trattato anche in un precedente lavoro, vedi Teobaldelli: 1993/94.
[7] E dunque di conseguenza una nozione alquanto pericolosa per la scienza, giacché indiscutibile
[8] Quale stimolo per una ulteriore riflessione mi sembra tuttavia utile riportare brevemente qui in nota una critica alla nozione di informazione mossa all'interno della cibernetica cosiddetta di secondo ordine (basata cioè sulla teoria dell'autopoiesi di Maturana e Varela) da Brier, rilevante in quanto proprio su tale critica Brier propone un ponte fra la stessa cibernetica e la semiotica.
[9] Per averne una prova basti considerare i risultati che essa ha nel campo della traduzione meccanica; è sufficiente collegarsi ad esempio con uno di quei motori di ricerca su Internet che offrono la traduzione simultanea dei siti indicizzati dopo una ricerca, oppure provare con un qualsiasi sofware di traduzione oggi in commercio. E tale fatto è sicuramente un punto a favore delle tesi anti-cibernetiche di Dreyfus, infatti se c'è una cosa che ancora i computer non possono fare bene questa è sicuramente la traduzione. Ciò evidenzia ancora di più il fatto che il problema della significazione è un nodo centrale nell'ambito della scienza contemporanea.